Più volte a settimana,
mio padre, con la stessa devozione di un antico farmacista, si
occupava dell' auto produzione di yogurt.
Un'esigua quantità della
realizzazione precedente, mescolata a una nutrita dose di latte
dolcemente caldo, serviva a generarne all'infinito. Un'amorevole
gestazione che sviluppava miliardi di fermenti nel confortevole
ventre di una brocca panciuta morbidamente avviluppata in frusti
pullover in disuso. A farne da sorvegliante una solerte, premurosa
piccola pentola colma d'acqua a temperatura prudente che,
avvicendata, ogni tempo indefinito, profondeva costantemente tepore
per esortare alla vita ogni singolo fermento. Dotata di grande
curiosità, accodavo con lo sguardo le movenze, stilandole,
frattanto, nel mio personale taccuino mentale appagandone
l'incommensurabile appetito di conoscenza.
Lo gustavamo caldo,
appena munto dalla lentezza.
Con miele o zucchero per
i meno avvezzi al sapore tipicamente acidulo. A me piaceva, e
continuo a gradirlo al naturale, a dimostrazione del fatto che
educare i palati ai sapori veraci, sin dai primi anni d'età, torna
importante per meglio “sentirli” e trarne beneficio.
Probabilmente, oltre alla
mia connaturata inclinazione verso quei sapori che, al contrario per
alcuni bambini e adulti dal palato non educato, potrebbero non essere
graditi, esiste la componente sentimentale dei ricordi che popolano
il cuore, votata ad addolcire anche i sapori acidi.
E fu la volta della
yogurtiera, il fermento proseguì sia all'interno che all'esterno del
grande contenitore formato famiglia. Per fortuna il progresso
tecnologico ha sì contribuito a semplificarne la preparazione, ma
senza rubare la scena all'antica arte del “sentire”.
Un rito, oggi, quello
dell'auto produzione dello yogurt, che dispone il mio animo alla
rievocazione spirituale di una saggia infanzia.
Che il Sole vi baci!
Gaia Marchese
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